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La sospensione all’infinito della prescrizione

La sospensione all’infinito della prescrizione

La sospensione all’infinito della prescrizione, se non interviene un provvedimento legislativo da qui al 31 dicembre, dall’anno prossimo sarà in vigore a tutti gli effetti. Introdotta dalla cosiddetta “legge spazza corrotti” venne, come noto, posposta di oltre un anno in attesa della “salvifica” riforma del codice di procedura penale che, a dire del ministro patronimico, avrebbe garantito processi rapidi per tutti. Riforma (in realtà il solito intervento su singole norme privo di qualsiasi organicità) su cui, ad oggi e con due governi di diversa composizione, non è stato trovato un accordo. 

Dal ‘92 in avanti la normativa penale, sia sostanziale che procedurale, non ha pressoché mai avuto pace. 

Un’autentica discesa agli inferi dettata da fattori sempre e totalmente estranei ad un equilibrata ed efficace amministrazione della giustizia. Eppure, nella congerie delle nefandezze perpetrate ai danni dei due poveri codici, quella del “fine processo mai” si staglia come, in assoluto, la più rozza, barbarica e devastante. Sia per i diretti interessati. Sia per l’intero sistema. Come si sia potuto concepirla ci dà il quadro della regressione che, operando da quasi trent’anni, ha inesorabilmente scarnificato la cultura giuridica di un paese che si voleva “culla del diritto”. 

L’istituto della prescrizione risale all’impero romano ma si applicava già nell’antica Grecia. Venne codificata da Costantino con la finalità di evitare le lungaggini processuali che, sin d’allora, costituivano un problema concreto. Era pari, udite udite, ad un anno successivamente portato a due. Nell’Italia unitaria la troviamo nel codice Zanardelli in cui riguardava l’esercizio dell’azione penale. Con il codice Rocco (giurista di rara sensibilità e saggezza) avrà, invece, riguardo al reato vero e proprio. Ad estinguersi con il decorso del tempo non è più la facoltà punitiva dello stato ma, per l’appunto, il reato stesso.  

Alfredo Rocco e Giuseppe Zanardelli
Alfredo Rocco e Giuseppe Zanardelli

Ed è sconsolante, nell’attuale deserto culturale degli odierni legislatori, rileggersi cosa ne scriveva all’epoca dei lavori preparatori: “ Il rigido principio di attuazione della giustizia per cui al delitto dovrebbe seguire, in ogni caso, la pena non tollererebbe idealmente ostacolo o deroga alcuna: tanto meno quella che si concreta nel solo decorso del tempo. Tuttavia io non ho creduto di accedere ad una concezione così rigida. Sarebbe andar contro una legge inesorabile di natura disconoscere tale azione corroditrice del tempo, o anche considerare il rapporto giuridico penale fra quelli, in verità rari, che l’ordinamento sottrae all’influenza estintiva del tempo”.   

Parole di questo genere, oggi, verrebbero stigmatizzate da buona parte del sistema mediatico  come quelle di un untuoso appartenente alla diabolica lobby degli avvocati “che fanno gli interessi dei loro clienti delinquenti”. Ed, invece, a vergarle era un guardasigilli di preclaro convincimento fascista, incaricato da Mussolini di redigere un codice in cui la stella polare non era propriamente  il garantismo. E che oggi, a distanza di quasi 90 anni dalla sua entrata in vigore e dopo oltre 70 anni di democrazia, rifulge per equilibrio rispetto alle novelle che lo hanno martirizzato a partire dagli anni 90. 

L’attuale guardasigilli, con un sarcasmo molto probabilmente del tutto inconsapevole,  proclama che l’abrogazione della prescrizione (che di questo si tratta) risponde all’esigenza di abbreviare i processi. I quali, ne è fermamente convinto, avranno tempi certi. Anzi certissimi. Perché, udite udite, i Giudici dovranno rendere conto disciplinarmente delle lungaggini che non siano in grado di giustificare. E a chi dovranno renderne conto? Al CSM. Ovvero a dei loro colleghi. E non mi pare il caso di dover aggiungere altro circa l’efficacia di un simile deterrente. Ma, anche volendo prestare fede alle certezze del ministro, la domanda sorge spontanea: ma se i tempi processuali saranno certi-certissimi e brevi-brevissimi, che bisogno c’era di andare a toccare la prescrizione?  Ora, di questi tempi, evocare i massimi sistemi, Beccaria, il principio per cui la pena, se interviene a lunga distanza dal fatto, perde la sua capacità “redentrice” di un reo che, nel frattempo, è diventato un’altra persona, ottiene l’effetto di farti additare come il solito garantista peloso che si nutre di paroloni mentre “il popolo” vuole risposte concrete rispetto a fenomeni criminali che non possono restare impuniti. Dunque, lasciamo perdere in partenza. 

Ma vediamo la questione da un punto di vista assolutamente pragmatico: oggi, in Italia, la prescrizione è così breve da non consentire ai Giudici di arrivare a una pronuncia di condanna definitiva nei termini prescritti?   

I termini di prescrizione (concepiti da Rocco) erano quantificati per blocchi; i reati fino a 5 anni di pena si prescrivevano in un certo tempo, quelli da 5 a 10 in un altro e così via. Con un minimo, in ogni caso, pari a cinque anni che, in caso di interruzione del suo corso (caso tipico, il rinvio a giudizio) potevano arrivare a sei. Con la cosiddetta riforma Cirielli (quella che, secondo una vulgata del tutto inveritiera, li avrebbe abbassati) il riferimento è al singolo reato. Che si prescrive in base a quella che è la pena massima prevista. In caso di interruzione il termine viene elevato di un quarto, per gli incensurati. Mentre ai recidivi si applica un aumento che va da un terzo alla metà (alla faccia dell’averli abbassati). Il minimo, per tutti i casi, passa a sei anni, elevabili a sette mezzo. 

Prendiamo il caso di un reato tipico dei “colletti bianchi”. Anzi, della casta: il peculato.  Il peculato ha una pena massima di 10 anni. Immaginando che l’imputato non sia recidivo possono diventare dodici anni e sei mesi. Sono pochi per giudicare se l’imputato è colpevole o innocente?

Ma non è finita qui. La riforma Orlando varata dal governo Gentiloni e attualmente vigente, ha previsto (con l’ennesimo ritocco all’istituto prescrizionale) che i termini possano essere sospesi, nel primo e il secondo grado di giudizio, di un anno e mezzo ciascuno. Per un totale di tre anni, dunque. Il che significa che il peculato, prima di estinguersi, gode di piena salute per quindici anni e sei mesi. 

E così l’assessore, piuttosto che il funzionario pubblico, accusato di aver utilizzato l’auto di servizio per fini personali quando aveva, mettiamo, trentacinque anni, può, con le leggi attuali, restare sotto processo fino a quando avrà traguardato la cinquantina. Ognuno è in grado di valutare se abbia senso una cosa del genere.

Teniamo conto che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha quantificato in sei anni la durata massima di un processo che possa dirsi “ragionevole”. Qui siamo ben oltre il doppio. E teniamo, ancora, conto del fatto, che è statisticamente certificato che la maggior parte del tempo che conduce, inesorabile, alla prescrizione scorre nella fase delle indagini preliminari. Quella in cui gli “avvocati dei delinquenti”, usi a mettere i bastoni tra le ruote ai magistrati per consentire ai loro protetti di farla franca, non vedono letteralmente palla non disponendo di strumento alcuno per condizionare, in qualsiasi modo, tempi ed andamento di un’indagine di cui il PM titolare è padrone assoluto, incontrastato e incontrastabile. 

In un quadro del genere, si può ragionevolmente sostenere che sia l’entità dei termini di prescrizione a pregiudicare la sana e ineludibile richiesta di “certezza della pena” che promana dal popolo sovrano?  

Il processo “infinito”, poi, oltre a rovinare la vita all’innocente che vorrebbe poter, perlomeno, conoscere entro quanto potrà essere riconosciuto tale, la rovina, specularmente, alle cosiddette parti lese che, del pari, vorrebbero poter sapere entro quando potranno essere risarcite o, comunque,  veder punito il delitto che le ha colpite. Ma è tutto il sistema della giustizia penale, che già non è messo benissimo, destinato ad andare incontro all’inevitabile implosione. In un paese in cui, da trent’anni, è diventato impossibile varare un provvedimento di amnistia (che era una valvola di sfogo per l’accumularsi dell’arretrato cui, fino al 1989, si ricorreva, senza particolari problemi, pressoché ogni cinque anni), la prescrizione rappresentava un tacito strumento per sfoltire un po’ di rami secchi. E non è un mistero per nessuno che molti procedimenti vengono scientemente “mandati a morire” per liberarsi di un po’ di carte, ritenute, evidentemente, poco utili da coltivare in giudizio. Ora, se non succede nulla da qui al 31 dicembre, quelle carte sono destinate a vita eterna nelle cancellerie dei Tribunali. Ed è inevitabile che, presto o tardi, comporteranno il collasso su se stessi dei patri tribunali.  

Last but not least, il portato politico culturale di una sciagurata abrogazione che, per inciso, è stata pure scritta con una sgrammaticatura giuridica indegna di un legislatore che si presuma sappia quello che scrive, considerando che viene indicata dalla norma come “sospensione” ed una sospensione implica necessariamente un inizio e una fine mentre nelle menti raffinatissime che l’hanno concepita essa corre esotericamente  all’infinito.  

Uno stato che si arroga la prerogativa di tenerti sotto processo all’infinito e di punirti anche a distanza di decenni dalla pretesa malefatta, può dirsi ancora uno stato democratico?

E che lo spirito della norma, paradossalmente voluta da una forza politica che a parole mette al centro “il cittadino”e per cui “uno vale uno”,sia quello di considerare i cittadini dei sudditi e sudditi inermi, lo dimostra l’aspetto più malefico di una già malefica previsione. Ovvero che si applichi anche a coloro che, in primo grado, sono stati dichiarati innocenti.

Va bene che il pensiero ispiratore dell’attuale guardasigilli vuole che gli innocenti siano dei colpevoli “che l’hanno fatta franca”, ma il mondo cupo, livido e asfissiante di cui questo pensiero è il “motore immobile” ha poco a che fare con un sistema democratico. E molto con l’inquisizione dei secoli bui!        

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